DAMNATIO MEMORIAE

Nell’antica Roma, la Damnatio Memoriae era un decreto, una condanna inflitta in seguito a fatti ritenuti di eccessiva gravità (ma spesso, in realtà, per ragioni solo politiche),  per effetto della quale veniva cancellato ogni ricordo (ritratti, iscrizioni, scritti) dei personaggi che ne erano colpiti.

Era, in effetti, la più terribile delle sentenze.

Sono sempre stata sensibile al tema del ricordo, della memoria, del rinvenimento delle tracce di quanti, attraversando la storia del mondo, hanno lasciato segni più o meno visibili del loro passaggio. D’altronde, ho sempre avuto terrore della perdita e, per contro, ho cercato di proteggere in un angolo del cuore quel che mi era caro (luoghi, cose, persone), per trattenerlo sempre vivo con me.

Credo che, in fondo, scrivo per combattere la grande nemica: la Morte che tutto cancella e io provo ad oppormi, con la parola – il mio solo mezzo –  al mostro che macìna, perché le parole sono locus dove la vita, il solco, l’impronta di noi rimane impressa a futura memoria, pronta a risorgere a onta dell’oblio.

Dentro le parole, dentro il pensiero, il tempo si dilata, lì moriamo e rinasciamo all’infinito, scegliendo di volta in volta nuove possibili vite.

Nella Parola alberga, a suo agio, la nostalgia, la benedetta, riflessiva, solitudine, lo scavo interiore, quello che esamina, indaga i resti, gli anfratti, i sedimenti dell’anima, alla ricerca di dimenticati tesori da porgere al lettore, perché vi riconosca le sue stesse istanze.

Lì io canto – piango senza pudore – la caducità dell’esistenza o indulgo all’illusione, al sogno, all’amore, con la loro capacità di trasfigurare la realtà.

Io mi rifugio in quel luogo ombroso che è l’interiorità e, attraverso la poesia, accedo ai lavacri dell’anima, per uscirne rinata, così da poter finalmente – nuovamente –  asserire che “non sono io quella di prima, non più”.

Sutta all’occhi di Scilla e Cariddi

Poesie nella Parrata Missinisi, Seconda edizione arricchita da nuove poesie e note esplicative

Io sono siciliana, di Messina. Anzi, sono un’abitante dello Stretto, sono Scillocariddota al pari delle fere*, dei mostri abissali, dei pesci e delle sirene.

Il salmastro m’impregna le narici e le vene, ed i miei occhi sono preda dell’azzurro che straripa da cielo e mare. Per me, mare e amore sono sinonimi… e lo sono pure di felicità.

Questa mia terra benedetta non conosce inverno: lo Stretto è complice della primavera, che qui arriva con un mese d’anticipo, rispetto al calendario (la primavera marina), inebriando i sensi di ciauru di mare, di zagare e gelsomini.

Qui, risuona alle mie orecchie la parrata missinisi, musicale come una serenata, dolce e calda come le zampogne della novena di Natale (le celebrate Ciaramelle che Pascoli compose proprio a Messina), epica per i racconti ammalianti di miti e leggende di sirene, fate e dei.

Questo è un luogo sacro che reca ancora visibile, a chi sa percepirla, l’impronta di un passato antico che val la pena di cantare, per sottrarlo all’oblio.

“Questo mare è pieno di voci e questo cielo è pieno di visioni” scriveva Pascoli,  che a Messina aveva passato  “i cinque anni migliori, più operosi, più lieti, più raccolti, più raggianti di visioni, più sonanti d’armonie” della sua vita.

Per me, coniugare poesia e dialetto significa ridare corpo e musica alla lingua che mi trasmise mia nonna e che parla e narra ancora al mio cuore. Una lingua che più dell’italiano è ricca di pathos, di fuoco e, insieme, della più tenera dolcezza. Una lingua potente e arcana che nel cuntu, nel locus della Parrata missinisi, amplifica il suo potere magico ed evocativo: qui, dee, fate, eroine e grandi madri levitano alte e colossali sulle onde dello Stretto,  rivelando ai più profondi recessi dell’anima i misteri e le verità dei loro archetipi.

Ed io, qui, ammaliata e stordita da questo scialo di sole e mare, di mito e storia, di suoni e profumi, dimentico e sublimo ogni afflizione e mi abbandono mollemente all’incanto di questa natura sontuosa, che nella sua munificenza sfida il tempo e la morte trasformandoli in un sussurro di eternità.

Maria Grazia Genovese

La Novena di San Giovanni – breve estratto da “Genius loci”, romanzo storico di Maria Grazia Genovese

(Il booktrailer del romanzo:https://www.youtube.com/watch?v=Ownnt-RavQg&t=48s )

(Il dialetto messinese è tradotto nelle note a margine)

Dal diario di Matilde, 25 Giugno 1897, in campagna

Le belle serate estive invogliano a riunirsi fino a tarda sera. Così, di tanto in tanto, dopo che i bimbi stanchi dei loro giochi si addormentano avvolti negli scialli delle madri, gli uomini si riposano dalle fatiche del giorno conversando e fumando, le donne ciarlano, le giovani, agghindate, scambiano occhiate maliziose con fidanzati e giovanotti. E nascono nuovi amori, nella sera fresca e profumata di gelsomino.

«Donna Angela, mâ faciti a Nuvena?[1]» chiedeva Rinuccia insistentemente, da un bel poco, alla moglie di Nino, la sera della Vigilia di San Giovanni.

«‘Sti cosi non si fannu pi’ babbiari» rispondeva Angela, seria. «Ci voli fedi, s’havi a prigari. A tia ti pari chi è giocu![2]»

«A voi chi l’ha insegnata?» chiese Tina alla suocera, curiosa.

«A bonanima i Donna Maria. Mâ fici ‘nzignari a menzanotti precisa, a notti i San Giuvanni. Ma idda a sapia fari megghiu i mia: era na picca strana, vonnu diri chi vidia u futuru…[3]»

Mi ricordai di quella sua profezia che, poi, avevo collegato alle mie gravidanze e raccontai l’episodio alle donne presenti che ne rimasero colpite.

«A mia, quann’era figghiola, mi dissi chi mi maritava cu’ Ninu e chi facia un masculu e na fimmina. Poi, tri anni arreti, prima i moriri, mi dissi chi me figghiu tunnava a casa… e allu cà![4]»

Prendemmo gusto a discorrere di strani episodi che ci erano accaduti, impressionandoci a vicenda, fin quando arrivò l’attesa mezzanotte.

Dopo averci raccomandato l’assoluto silenzio e l’attento ascolto dei “segni” che il Santo si sarebbe, forse, compiaciuto di inviarci, Angela cominciò a recitare la Novena.

La prima “intenzione” era per Rinuccia che venne accontentata quasi subito dall’abbaiare di un cane in lontananza e da una voce che si levò dal gruppetto degli uomini:«Sì, sì!»

«Ti fai zita entru l’annu![5]» le assicurò Angela e poi ci annunciò la nuova “intenzione”per Tina e Pietruccio.

Dopo alcuni minuti di silenzio, rotto solo dalla voce cantilenante e quasi ammaliante di Angela, una bimbetta si mise a piangere, seguita subito da una risata squillante. La nostra sacerdotessa si illuminò: «Bona nova! Non è chi c’è na fimminedda ‘n arrivu?[6]» E rivolse un sorriso speranzoso alla nuora che, istintivamente, si toccò il ventre.

A quel punto, stavamo per sciogliere la piacevole compagnia, ché l’ora era tarda e Angela stanca, quando Carolina insistette per aggiungere lei un’ultima “intenzione”.

«Ma è l’uttima, piddaveru![7]» Angela si rifece il segno della croce e ricominciò a cantilenare: «San Giuvanni Decullatu, u vostru corpu è matturiatu e pi’ la vostra decullazioni datimi aiutu e cunsulazioni. Sia di beni e sia di mali, facitimi vidiri cocchi signali[8]»

Era molto tardi ed eravamo rimasti in pochi nello spiazzale. Anche gli uomini, distanti, non erano più inclini a conversare. Nell’aria calma e tersa, pulsavano un gran numero di stelle. Angela stava ormai avviandosi a concludere la terza e ultima

ripetizione della novena, quando si alzò un vento improvviso e una folata fece sbattere qualche finestra e spense una delle torce davanti alla casa. La donna soprassaltò e alzò la mano a farsi precipitosamente il segno della croce per chiudere la Novena, ma un ultimo segnale si infilò quasi a forza fra gli altri auspici: sentimmo un battito d’ali come d’un gigantesco uccello notturno che si levasse in volo. Poi, l’assoluto silenzio.

Mi sentii gelare il cuore.

«E allora?» domandò Carolina, quasi allarmata.«Angela, che significa?»

«Nenti, nenti[9]» si scansava il nostro oracolo.

«Non erano segni buoni, vero?»insistè Carolina.

«Non tantu» confermò Angela messa alle strette. «Ma vui pi’ cu’ a vulistu fatta?[10]»

«Per nessuno in particolare» spiegò mia figlia. «Per vedere il futuro…» quasi si giustificò.

«Vû dissi: cu’ sti cosi non si babbia. Nenti, San Giuvanni u sapi chi non ci criditi e non vi dissi nenti. Bonanotti, bonanotti[11]» ci salutò frettolosamente e andò via a braccetto con sua nuora.

«Sento freddo» rabbrividì Carolina, suggestionata dal cattivo presagio.

«Certo, è tardi. Rientriamo, amamma» la rassicurai, aggiustandole meglio lo scialle sulle spalle. Ma anch’io non riuscivo a scacciare l’oscura angoscia che mi aveva assalita.

Mai più. Mai più.


Note:

[1] «Donna Angela, mi fate la Novena?»

[2] «Queste cose non si fanno per scherzare. Ci vuole fede, si deve pregare. A te sembra che sia un gioco!»

[3] «La buonanima di Donna Maria. Me l’ha fatta imparare a mezzanotte precisa, la notte di San Giovanni. Ma lei la sapeva fare meglio di me: era un poco strana, dicono che vedesse il futuro…»

[4] «A me, quando ero ragazza, mi disse che mi sarei sposata con Nino e che avrei avuto un maschio e una femmina. Poi, tre anni fa, prima di morire, mi disse che mio figlio sarebbe tornato a casa… ed eccolo qua!»

[5] «Ti farai fidanzata entro l’anno!»

[6] «Buona nuova! Non è che c’è una femminuccia in arrivo?»

[7] «Ma è l’ultima, davvero!»

[8] «San Giovanni Decollato, il vostro corpo è martoriato e per la vostra decollazione datemi aiuto e consolazione. Sia di bene, sia di male, fatemi vedere qualche segnale…»

[9] «Niente, niente.»

[10] «Non tanto. Ma voi per chi avete voluto farla?»

[11] «Ve l’ho detto: con queste cose non si scherza. Niente, San Giovanni lo sa che non ci credete e non vi ha detto niente. Buonanotte, buonanotte.»

PELORIA – Fra scienza e mistero

Una moneta coniata nella Messina (Zancle) antica – tra il 461 ed il 288 a. C. – raffigura sul recto un profilo di donna dai lineamenti marcati e incoronata di rose e canne palustri e sul verso un guerriero armato di lancia e scudo. Sono, costoro, Peloria e Feremone.

Peloria (cioè “grande, terribile”) è una figura oscura: una ninfa o una divinità delle acque molto antica, la Signora delle Paludi, che aveva dimora fra gli acquitrini di Capo Peloro, allora una regione selvaggia sede di culti misteriosi. Sarebbe stata anche una dea madre, dall’aspetto gigantesco, posta a difesa del territorio e sostenuta, nella sua impresa, dal guerriero-eroe Pheraimon, uno dei sette figli di Eolo. Essa appariva sia come incarnazione del principio più inumano e selvaggio della natura che come una ninfa affascinante. In altre monete era raffigurata anche con delfini, conchiglie e mitili, e in una di queste era inciso un quadrato con linee incrociate e con al centro una conchiglia, il quale, secondo alcuni archeologi, indicava la posizione del tempio segreto dedicato alla dea, nascosto tra i canneti dei pantani.

Chi conosce la zona di Capo Peloro sa dei due laghi (Faro e Ganzirri), ma non tutti sanno che tra di essi vi è una zona chiamata Margi, “la Palude” e che questa un tempo era il terzo lago di Capo Peloro, noto ai viaggiatori, agli esploratori e ai naturalisti da tre millenni. Le fonti antiche riportano che là sorgevano l’ara e il tempio di un dio e che il lago era consacrato ad una divinità a noi oggi sconosciuta, un essere mostruoso che ingoiava tutto quello che vi veniva immerso: il solo toccare le acque o immergervi il braccio poteva portare alla perdita delle dita o dell’arto.

C’era dunque un mostro nascosto negli antri profondi, un dio ignoto? Una divinità del mare e delle profondità, un essere terribile legato alle paludi, agli acquitrini, al luogo mefitico e sulfureo dove sorgeva il suo tempio, una forma di vita malefica in grado di causare per secoli miasmi, avvelenamenti, malaria e morie di animali e uomini? Nel corso dei secoli, il lago diventò una palude dall’aria malsana. Poi, poco a poco, ogni cosa venne dimenticata, ma nel 1783 il potente terremoto che squassò Messina liberò di nuovo il Mostro: i veleni che esalavano dal profondo ripresero a diffondersi come nel lontano passato. Infine, la palude venne definitivamente bonificata e oggi su di essa sorgono campi, canneti e qualche villetta.

Ma la mostruosa divinità degli acquitrini è davvero scomparsa, inghiottita dall’oblio, o qualcosa giace ancora, in agguato, sotto la superficie, nelle profondità, dove non arriva l’ossigeno? Nell’Ottocento, un viaggiatore raccontò di aver sentito, presso la contrada Margi, nel silenzio, una melodia sconosciuta di flauto arrivare da chissà dove. Qualche anno fa, un moderno archeologo, preso nella vana ricerca dei resti del Tempio di Margi, ricorda di aver provato uno strano senso di disagio e paura, che lo spinsero a non farvi ritorno mai più…

Ma cosa dice la scienza? Che il Mostro della Palude esiste!!!È, effettivamente, un raro batterio, il Desulfovibrio Desulfuricans, un microrganismo diffuso in questi laghi costieri, capace di avviare reazioni chimiche straordinarie, sul quale gli studiosi compiono ancora oggi ricerche.

Maria Grazia Genovese

P.S.

Alla ninfa Peloria ho voluto dedicare una mia video-poesia:

NTO SCURU

Iapri la porta
e ntrasi

cerca nto scuru
u lustru  dî me’ occhi:

ti  parrunu d’un tempu
già scurdatu, anticu
cchiù di li to’ patri

e sutta a mmia
crisceru 
li to matri.

Mi trovi ammenzu
i rosi e a li canni,

cu chisti ntrizzu
u ranu dî capiddi

e si mi spogghi
mi rivesti sulu

la sita 'i bissu
di la luci d’oru.

Piloria l’immortali
ora mi chiamu,Terra
e Matri.

Pirchì non mori
cû in eternu
po’ spittari.

Maria Grazia Genovese

FATAMORGANA nello Stretto di Messina

In una lettera del 1648 diretta a frate Leone Sancio, Ignazio Angeluccio trovandosi a Reggio Calabria descrive così il fenomeno della Fatamorgana del quale fu testimone:“Il mare che bagna la Sicilia si gonfiò e diventò per 10 miglia di lunghezza come una spina di montagna nera, e quella della Calabria spianò, e comparve in un momento un cristallo chiarissimo e trasparente che pareva uno specchio e pareva con la cima appoggiare sulla montagna e col piede al lido della Calabria. In questo specchio subito comparve una fila di più di diecimila pilastri equidistanti, tutti di un vivissimo chiarore e uguali in larghezza e altezza, di un’altra medesima tinta erano gli sfondi tra i pilastri. In un momento poi i pilastri si smezzarono di altezza e si curvarono in una forma simile a quella degli acquedotti di Roma, e restò semplice specchio il resto del mare, ma per poco; perché tosto si formò un gran cornicione. Poco dopo sopra il cornicione si formarono castelli reali in quantità, disposti in quella vastissima piazza di vetro, e tutti di una forma e lavoro. Poscia le torri si cambiarono in teatro di colonnati e, il teatro si estese e fece una doppia fuga; quindi la fuga dei colonnati divenne una lunghissima facciata di finestre in fila; in quella facciata si vide una varietà di selve, di pini e di cipressi uguali, e di altre varietà di alberi; poi tutto disparve, e il mare, con un po’ di vento tornò mare. Questa è la Fata Morgana che per anni ho stimata inverosimile ed ora ho veduto vera e più bella di quella che mi si era dipinta”.

In ottica, la Fatamorgana è una forma complessa e insolita di miraggio che si può scorgere all’interno di una stretta fascia al di sopra dell’orizzonte. Questo fenomeno ottico si verifica quando i raggi di luce sono incurvati dal passaggio attraverso strati d’aria a temperature diverse, in condizioni di inversione termica, con la formazione di un condotto atmosferico. Infatti, in condizioni di tempo sereno, può capitare che uno strato d’aria molto più calda sovrasti uno strato di aria più fredda: in questo caso, la differenza tra gli indici di rifrazione può dar luogo alla formazione del condotto che agisce come una lente di rifrazione, producendo una serie di immagini sia dritte sia invertite. Perché si verifichi il fenomeno della Fatamorgana sono necessarie tutte queste condizioni, da cui la sua relativa eccezionalità.
Inoltre, l’osservatore deve trovarsi all’interno o al di sotto del condotto atmosferico per poter assistere al fenomeno. Il risultato è di vedere, oltre all’oggetto, anche una sua immagine “sospesa” in cielo e capovolta e gli oggetti in lontananza talvolta assumono le sembianze di torri, pinnacoli, obelischi… in certi casi dalla costa calabra (o siciliana) si può vedere la Sicilia (o la Calabria) più vicina del normale con immagini distorte e riflesse sul mare o sul suolo; in sostanza la distanza sembra essere di poche centinaia di metri e si ha l’impressione di osservare nello Stretto una città irreale che si modifica e svanisce in brevissimo tempo; talvolta si possono per poco tempo distinguere le case, le auto e addirittura le persone. Il nome italiano è conosciuto anche all’estero, perché si tratta di un fenomeno frequentemente osservato nello Stretto di Messina. Esso fa riferimento alla fata Morgana della mitologia celtica, che, avendo dimora nel suo palazzo di cristallo in fondo allo Stretto, induceva nei marinai visioni di fantastici castelli in aria o in terra per attirarli in mare e condurli a morte.

Maria Grazia Genovese

NEL CANTO

NEL CANTO

Ha un altro tempo
la vita interiore.

Ed ha un’altra luce
che è quella dell’alba
nel cui biancore
il tempo scorre scritto
fondo e vago
e lieve e immenso.

La vita interiore
ha il tempo dell’Alba.

Ed io vivo
più viva che mai
in quello spazio
che volge all’azzurro

nel canto
degli uccelli dell’Aurora

nel canto
dell’anima mia
e del risveglio del mondo.

In questo frammento
di Tempo
infinito e fulgido
non c’è morte.

La Morte è sconfitta
dall’adamantino canto
dell’Aurora.

Maria Grazia Genovese